DOMENICO VENTURA
Prima che faccia buio
Rocca Paolina, Perugia
Ci sono artisti il cui lavoro riempie le stanze di rumore, colore, urgenza — e poi ci sono artisti come Domenico Ventura. I suoi dipinti non cercano attenzione. Aspettano. Restano in silenzio, come qualcosa intravisto in un sogno che non riesci del tutto a dimenticare, o una canzone, a metà ricordata dall’infanzia. Con Prima che faccia buio, in apertura il 3 luglio 2025 nella Sala cannoniera della Rocca Paolina a Perugia, la visione di Ventura ritorna — vivida, implacabile e dolorosamente intima.
Ventura, nato nel 1942 ad Altamura e scomparso nel 2021, ha occupato una posizione unica e in parte solitaria nel panorama della pittura italiana contemporanea. Non appartenne a movimenti, né cercò i riflettori. Sembrava vivere ai margini del rumore del mondo dell’arte, costruendo invece una mitologia privata, spesso inquietante, fatta d’immagini. Il suo lavoro era modellato da un ritmo interiore profondo, che vibrava di satira, tenerezza, resistenza e mito. Parte della sua formazione artistica si svolse in Umbria — una regione che, con le sue storie stratificate, la sua quiete mistica e i fantasmi persistenti di santi e ribelli, sembrava rispecchiare il tono spirituale della sua pittura.
La mostra si sviluppa come una sequenza — oltre trenta opere, tutte dello stesso formato, disposte non come oggetti statici ma come presenze viventi. Non sono ritratti, né allegorie in senso convenzionale. Sono apparizioni, visite da un regno liminare tra il sonno e la veglia. Le figure di Ventura emergono con una grazia distorta: occhi spalancati per lo stupore o la disperazione, corpi colti in momenti di estasi sbilanciata, oggetti simbolici disseminati come resti di un rito dimenticato. Il loro grottesco non è mai fine a sé stesso. È una distorsione poetica, un modo per toccare una verità più intima di quella che il realismo può raggiungere. Questi dipinti non illustrano — inquietano. L’iconografia di Ventura è ostinatamente personale e insieme stranamente universale. I suoi volti sono familiari non perché li riconosciamo, ma perché somigliano a come ci sentiamo nei nostri momenti più vulnerabili. Ansia, stupore, vergogna, gioco, erotismo, sacralità: tutto convive sulla stessa tela. Alcune figure sembrano ridere; altre fissano il vuoto, come colte nel mezzo di una rivelazione o di un crollo. È difficile sapere cosa stia accadendo esattamente — e questa ambiguità è il punto.
E poi, c’è lo spazio. La Rocca Paolina non è un white cube neutro. Costruita nel XVI secolo sotto papa Paolo III per affermare il dominio papale sulla ribelle città di Perugia, è una fortezza stratificata di significati — un luogo che respira conflitto, memoria, resistenza e controllo. La Sala cannoniera, con le sue volte in pietra e la sua severità architettonica, non si limita a ospitare i dipinti di Ventura: li accoglie, li riecheggia, li trattiene come un corpo trattiene un fantasma. L’immaginario di Ventura, saturo di ambiguità, tensione e lirismo oscuro, trova in queste mura una risonanza perfetta. Ciò che un tempo fu un luogo di potere diventa uno spazio di rêverie, disobbedienza e radicale tenerezza.
C’è qualcosa di quasi cinematografico nell’esperienza della mostra — una coreografia visiva che ricorda un film mai realizzato. Ogni tela è un fotogramma da una narrazione interiore, un istante tremolante tra il sonno e la veglia. Ventura non ci offre storie con inizio e fine. Ci dà frammenti. Emozioni sospese. Rituali a metà ricordati. Sogni interrotti dalla luce crudele del giorno. Tutte le opere sono dello stesso formato — una scelta che rafforza la sensazione di ritmo cinematografico, come frame di una pellicola dimenticata. Camminando attraverso la sequenza, ci si sente più personaggio di un film che visitatore di una mostra.
Il titolo Prima che faccia buio non è semplicemente poetico — nomina uno stato specifico della percezione. Quel momento del crepuscolo in cui i contorni delle cose cominciano a dissolversi, quando le forme familiari diventano strane, quando il tempo stesso sembra esitante. È l’ora in cui i bambini si fanno silenziosi e i cani abbaiano alle ombre, quando la mente allenta la presa e l’immaginazione prende il sopravvento sulla logica.
La pratica di Ventura appartiene interamente a questo regno liminare. Non è un’arte della chiarezza o della confessione. È un’arte della suggestione, delle verità velate e dei palinsesti emotivi. Stare davanti alle sue opere significa stare su una soglia — tra ciò che sappiamo e ciò che temiamo di aver dimenticato. Il suo vocabolario visivo, sebbene profondamente personale, risuona di echi culturali più ampi. Si potrebbe pensare al senso dell’inquietante di David Lynch, dove il banale e il surreale si confondono. O alla malinconia nostalgica di Lucio Dalla, al modo in cui cantava del tempo e della memoria come se fossero amanti segreti. O al grottesco carnevalesco di Fellini, dove il sacro e l’assurdo si baciano sotto un tendone da circo.
Ci sono affinità, sì, ma nessuna discendenza chiara. Ventura non segue: vaga. Ascolta i silenzi. Dipinge ciò che si rifiuta di essere pienamente visto.
Forse ciò che colpisce di più nell’opera di Ventura è la sua ambiguità emotiva. Non ti dice cosa provare. Ti dà lo spazio per sentire. E in quello spazio — spesso scomodo, spesso bellissimo — qualcosa accade. Un riconoscimento. Un tremore. La sensazione che ciò che stai guardando non sia fuori da te, ma dentro. I dipinti di Ventura funzionano come specchi che distorcono e chiariscono allo stesso tempo. Non offrono soluzioni, solo riflessi — e così facendo, ci restituiscono qualcosa di raro nell’arte contemporanea: il diritto di restare incerti.
In un’epoca in cui gran parte dell’arte contemporanea tende all’enfatico, al visibile, al rumoroso, l’intensità silenziosa di Ventura appare radicale. I suoi dipinti non affermano; attendono. Non sono dichiarazioni, ma inviti — a dubitare, a meravigliarsi, a sognare diversamente. In questo senso, Prima che faccia buio è più di un omaggio. È una chiamata alla lentezza, all’interiorità, a uno sguardo che richiede tempo — e coraggio. Man mano che il visitatore attraversa la Sala cannoniera, i dipinti diventano meno oggetti e più ombre proiettate dalla mente. Ogni immagine si apre sull’altra, non in progressione lineare ma in risonanza emotiva. La sequenza non è narrativa ma affettiva. Alla fine, non si esce dalla mostra: si ritorna da un viaggio.
Un viaggio dentro sé stessi. Verso il margine tremolante della coscienza. Verso quell’ora prima del buio — quando l’occhio non si fida più del mondo, e l’anima comincia a vedere. Prima che faccia buio non è solo una mostra. È un passaggio. Un rito dello sguardo e del ricordo. Uno spazio di abbandono al mistero di ciò che l’arte può ancora fare: turbare, incantare, disancorare e, proprio prima che la luce scompaia, offrire una forma di grazia.



