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Episodio 3 - parte 1

Nello studio di Bruno Delgado, Blanca Gracia, Francisco Olivares Dìaz, Fabìan Ramos

Pubblicato il 21 febbraio 2025 su segnonline

Acting & Drama Classes

Da oltre un secolo e mezzo, l'Accademia di Spagna a Roma rappresenta un crocevia culturale e creativo, un luogo dove tradizione e innovazione si incontrano. Fondata nel 1873, questa istituzione continua a essere un punto di riferimento per artisti, ricercatori e creatori provenienti da tutto il mondo ai quali offre l'opportunità di sviluppare progetti unici in dialogo con il ricco patrimonio storico e artistico della capitale italiana. Con la sua missione di promuovere la sperimentazione e il confronto tra discipline diverse, l'Accademia di Spagna è un laboratorio di idee in continua evoluzione. Qui, pittori, scultori, architetti, scrittori, musicisti e cineasti trovano uno spazio in cui approfondire la loro ricerca, ispirati dalla stratificazione culturale di Roma. Un'istituzione che, pur radicata nella sua storia, rimane sorprendentemente contemporanea, alimentando un costante dialogo tra passato e futuro.

Varcare la soglia di uno studio d’artista significa entrare in un universo intimo, fatto di idee in divenire, sperimentazioni e tracce materiali del processo creativo. La scorsa settimana ho avuto il privilegio di visitare l’Accademia di Spagna a Roma e di dialogare con i suoi borsisti, esplorando le loro pratiche e i progetti che stanno sviluppando durante la loro residenza nella capitale italiana.

Singing & Dance
Foto di Davide Melfi

BRUNO DELGADO: IL CIELO CANCELLATO

Bruno Delgado parte da una formazione in architettura per poi approdare al cinema sperimentale, con una pratica che interroga la relazione tra immagine e spazio. Il suo progetto romano si concentra sulla rappresentazione del cielo nelle prime fotografie del XIX secolo, in particolare attraverso l’analisi degli archivi dell’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione. Le fotografie di Ludovico Tuminello e Giacomo Caneva, con i loro cieli spesso cancellati o ritoccati, offrono a Delgado una riflessione sulla costruzione del patrimonio visivo e sulla manipolazione dell’immagine. Il suo lavoro si traduce in un film che intreccia riprese contemporanee e materiali d’archivio, affiancato da installazioni con proiezioni cinematografiche in loop. L’artista esplora anche la materialità della luce, utilizzando superfici trovate e oggetti di recupero per amplificare il gioco di riflessi e trasparenze nelle sue proiezioni.

“Ho iniziato il mio progetto con questo libro di Pasquale Quignard che parla di affreschi etruschi e soprattutto di sacerdoti romani che guardavano il cielo per cercare di predicare, di pronosticare. E c'è qualcosa che a me è piaciuto: con il litus, un bastone sagrato che avevano, disegnavano nel cielo un rettangolo e dentro questo rettangolo guardavano le nubi, i cambiamenti meteorologici, gli uomini… simboli per determinare se qualcosa era buono o no, se una decisione che era buona o no. Questo è stato l’inizio, poi ho continuato a documentarmi rintracciando altre forme popolari di predizione o di pronostico, molto spesso collegate all'agricoltura dove ci sono persone che guardano il cielo e dicono per esempio se il prossimo mese pioverà molto. Qui a Roma il progetto ha un tassello in più, dato dalla fotografia 1860-1870 che ho trovato in un archivio qui a Trastevere dove ho scoperto il lavoro di due fotografi: Ludovico Tuminello e Giacomo Caneva. All'epoca, c'era un problema nella rappresentazione del cielo. Se le fotografie non venivano ritoccate, il cielo appariva in un certo modo, praticamente bianco. Il problema era che il colore blu influenzava il negativo, lasciandolo con un aspetto sporco. Per risolvere questo, i fotografi iniziarono a ritoccare le immagini, utilizzando mascherature di carta e applicando una vernice rossa per definire i dettagli, in modo che, nelle copie positive, il cielo risultasse completamente bianco. L'idea di cancellare il cielo, di eliminare lo sfondo per concentrarsi solo sulla figura, mi ha affascinato e ho iniziato a lavorare su questo concetto. Ho visitato gli archivi e sto filmando i negativi originali. Queste fotografie di Roma furono fondamentali nella costruzione dell'idea di patrimonio: in quell'epoca, la fotografia si concentrava soprattutto sulla rappresentazione degli spazi monumentali, documentandoli e fissandoli nel tempo. Successivamente, queste immagini viaggiavano in tutta Europa sotto forma di cartoline, contribuendo alla diffusione del concetto di patrimonio culturale.

Il mio interesse si concentra proprio su questa cancellazione del cielo, e il mio lavoro si sviluppa attorno a questa tematica. Sto realizzando un film, che potrebbe assumere anche la forma di un'installazione labirintica. Ho già raccolto molto materiale, avendo filmato in vari luoghi come Scozia, Madrid, Cuenca, Siviglia e New York. A Roma, intendo completare la pellicola o almeno filmarne la parte finale. Ad esempio, per arrivare qui da Barcellona – anche se non vivo lì – ho viaggiato da Bilbao a Barcellona e poi sono giunto a Civitavecchia via mare. Questa traversata è proprio l'inizio della fase attuale del progetto: il cielo visto dal mare. Il cielo è un elemento molto presente nel film, ma non è l'unico soggetto, essendoci anche io stesso mentre lavoro, utilizzando filtri graduati, che vengono impiegati per correggere la fotografia del cielo, contribuendo così a una manipolazione dell'immagine.

Oltre al film, sto preparando un'installazione espositiva, con un insieme di pezzi che includeranno proiettori di cinema in loop. Questo approccio è pensato per una fruizione museale, dove lo spettatore possa immergersi nella visione delle immagini. In sintesi, il lavoro si svilupperà su due livelli: da un lato, la pellicola, che esplora la relazione tra il cielo e la sua cancellazione nella storia della fotografia; dall'altro, una serie di installazioni cinematografiche pensate per uno spazio espositivo, con materiali trovati e proiezioni immersive”.

 

Bruno Delgado Ramo è un cineasta e artista-ricercatore con una formazione in architettura.

Il suo lavoro interdisciplinare si sviluppa come una ricerca basata sulla pratica sperimentale e materiale dei media cinematografici, in cui concetti come specificità, processo e lettura spaziale rivestono un ruolo centrale. Considera la ripresa e la proiezione come processi luminosi legati a luoghi e contesti specifici. La sua pratica si concretizza in film, ambienti di proiezione, azioni e pubblicazioni. Il suo lavoro è stato presentato in festival come Rotterdam, Punto de Vista e Vila do Conde. Ha svolto residenze presso istituzioni come WIELS Contemporary Centre, Liaison of Independent Filmmakers of Toronto, Matadero Madrid, BilbaoArte, Centre for Contemporary Arts Glasgow e il Museu de Belles Arts de Castelló.

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Foto di Davide Melfi

BLANCA GRACIA: IL MOSTRO E IL PAESAGGIO DELL’ESILIO

L’universo artistico di Blanca Gracia è profondamente narrativo e affonda le radici nel folklore, nella mitologia e nell’esilio. Attraverso un approccio che combina animazione, video, disegno e installazione, l’artista costruisce mondi immersivi che esplorano la condizione umana e le sue marginalità. Il suo progetto presso l’Accademia di Spagna ruota attorno all’archetipo del mostro nelle fiabe, approfondendo la metafora dell’essere inghiottiti da una creatura mostruosa e il significato simbolico di trovarsi in un luogo liminale, sospeso tra due dimensioni.

“La figura del mostro mi interessa perché è sempre qualcosa che sta ai confini, qualcosa che ci spaventa e ci attrae allo stesso tempo. L’idea di essere inghiottiti da un mostro è una metafora molto potente: significa essere divorati dall’ignoto, ma anche attraversare una soglia, un passaggio necessario per trasformarsi.”

Nel suo lavoro, Gracia intreccia riferimenti storici e mitologici, ispirandosi a luoghi come la Domus Aurea e all’iconografia della Lupercal, la grotta dove, secondo la leggenda, la lupa avrebbe allattato Romolo e Remo. Questi riferimenti si sovrappongono a un’indagine sulle figure marginalizzate nella storia, coloro che sono stati esclusi o demonizzati dalla società. “Il mio lavoro è molto scenografico. Questo primo studio sull’esilio ruota attorno all’idea del mostro, che ricorre in molte formulazioni giuridiche europee legate alle persone espulse dalla società e assimilate agli animali. Nel diritto romano, ad esempio, si diceva che qualcuno era ‘senza acqua e senza fuoco’, ovvero privato di ogni diritto civile e gettato ai margini del mondo.” La sua ricerca si tradurrà in un’installazione che comprenderà anche un film d’animazione, unendo immagini reali e simboli evocativi per creare un linguaggio visivo capace di comunicare su diversi livelli di interpretazione. Il suo processo creativo parte spesso dal disegno, sviluppandosi in una stratificazione di segni e simboli che trovano poi forma nell’animazione e negli elementi scenografici.

“Sto preparando disegni per i costumi e la scenografia. Alcuni elementi appariranno nel film. Ad esempio, qui c’è un finocchio. Gioco molto con il linguaggio: ‘finocchio’ è anche un insulto omofobo. Una parte del mio lavoro è legata alla botanica e alle piante associate agli emarginati. Nel folklore spagnolo e in altre culture, molte piante legate alla medicina popolare erano anche viste con sospetto, come simboli del rifiuto sociale. ‘Finocchio’, ad esempio, potrebbe derivare dall’idea che venisse bruciato per coprire l’odore della carne umana nei roghi.”

Nel film, il finocchio apparirà come un cuore che si apre, emettendo un richiamo, un elemento che diventa sia segno di fragilità che di resistenza. Attraverso il suo lavoro, Gracia esplora il modo in cui la società ha storicamente costruito e alimentato il concetto di mostruosità, spesso usandolo come strumento per giustificare esclusioni e persecuzioni. “Caput gerat lupinum – ‘Lascia che la tua testa sia la testa di un lupo’. Questo termine veniva usato per indicare persone considerate pericolose per la società, che avevano commesso un crimine o erano viste come elementi da escludere. Una volta chiamati ‘testa di lupo’, si veniva espulsi dalla città e costretti a vivere nel bosco, senza la protezione del re, esposti ai pericoli ma con la massima libertà.” L’animazione a cui sta lavorando esplora queste tematiche attraverso un’estetica fortemente evocativa, in cui il confine tra realtà e immaginazione si dissolve. I personaggi appaiono come figure ibride, sospese tra il mondo umano e quello animale, tra il visibile e l’invisibile. “Nelle fiabe, il momento in cui il protagonista viene inghiottito dal mostro è spesso anche il punto di svolta della storia, un passaggio necessario per poter rinasce. Il mio lavoro cerca di riflettere su cosa significhi oggi attraversare questa soglia: chi sono i mostri della nostra società? E cosa significa realmente essere espulsi o considerati ‘altro’?”

Attraverso il suo progetto, Blanca Gracia non solo rielabora antiche narrazioni, ma interroga le strutture sociali e culturali che ancora oggi definiscono l’inclusione e l’esclusione. Il suo lavoro è un invito a riconsiderare i confini tra normalità e mostruosità, tra centro e margine, tra visibile e occulto.

 

Blanca Gracia si è laureata in Belle Arti presso l'Università Complutense di Madrid, completando parte dei suoi studi nel New Mexico (Stati Uniti). Il suo lavoro artistico attinge a diverse discipline, spaziando dal disegno al video, fino all'installazione e alla scenografia. Attraverso  un universo personale influenzato dai miti, dal folklore e dalla cultura popolare, la sua opera affronta tematiche sociali legate alla contemporaneità. Tra le sue mostre personali più rilevanti si segnalano Cabeza de Lobo (Sala de Arte Joven), Plátano de Sombra (Twin Gallery), Sizigia (Galería Ángeles Baños), Acmé en dos variaciones (Centro Parraga) e Panta Rei o los objetos desobedientes (Centro de Arte de Alcobendas). Il suo lavoro è stato esposto anche in mostre collettive presso spazi come la Cooke Latham Gallery (Londra), Fabra i Coats (Barcellona), MUSE – Museo delle Scienze (Trento), Matadero (Madrid), La Casa Encendida (Madrid) e il Museo de Cáceres, tra gli altri. Ha inoltre partecipato a fiere d'arte nazionali e internazionali, tra cui ArcoMadrid, Frieze (Londra) e Zona Maco (Messico). Nel corso degli anni ha ricevuto diversi premi e borse di studio, tra cui una residenza presso Gasworks (2023), il Premio di Produzione Primera Fase (2022), una residenza annuale presso CRA Matadero (2019) e Generaciones 2017.

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Foto di Davide Melfi

Francisco Olivares Díaz (FOD): Sculture Abitabili

Francisco Olivares Díaz, noto come FOD, sviluppa un approccio artistico che fonde pittura, scultura e architettura, creando opere che riflettono il suo interesse per le geometrie e le strutture dello spazio. Il suo progetto a Roma si concentra sulla reinterpretazione delle intricate geometrie dei pavimenti delle chiese romane, in particolare quelli della famiglia Cosmati, con l’obiettivo di trasformarle in nuove strutture tridimensionali. Attraverso un attento lavoro con materiali di recupero come marmo, legno e ferro, FOD costruisce rifugi geometrici che esplorano i concetti di spazio abitabile, protezione e memoria.

Durante il nostro incontro, FOD ha condiviso la sua fascinazione per il recupero di materiali antichi, spesso trovati nei mercatini romani, e per la loro capacità di raccontare storie attraverso il tempo. Questo interesse per la stratificazione storica si traduce nel suo processo creativo, in cui le geometrie storiche vengono trasformate in composizioni innovative che sfidano la percezione tradizionale dello spazio. "Il mio lavoro dialoga direttamente con l’architettura, la geometria, la linea e la simmetria, ma in questo progetto lo sguardo si sposta sulla scultura, generando opere di possibili architetture sognate", racconta l’artista.

Partendo dai motivi geometrici dei templi e palazzi romani, FOD esplora i giochi di prospettiva che essi generano e li rielabora in chiave contemporanea. "Dalla combinazione di queste geometrie con il colore creo nuove rappresentazioni. In questa occasione, il mio obiettivo è realizzare sculture 'abitabili', ispirate ai pavimenti in marmo di vari luoghi di Roma, per dare forma a nuove strutture tridimensionali", spiega. La scelta dei materiali non è casuale: il marmo, con la sua storia stratificata, diventa il punto di partenza per un processo di trasformazione che coinvolge anche legno e ferro. "Il ferro, in particolare, lo uso come linea e disegno, enfatizzando i tratti che emergono dai bordi delle opere. Questo rappresenta un cambiamento nell’uso della linea come elemento costruttivo, passando da un segno grafico a una superficie opaca capace di contenere un ambiente".

L’idea di rifugio è un elemento centrale del suo progetto e attraversa tutto il suo processo creativo. "Il rifugio è un’idea astratta che evoca una sensazione di sicurezza di fronte a un pericolo, uno spazio di calma in cui le tensioni si dissolvono", riflette l’artista. Questa nozione si traduce in strutture che non sono semplicemente opere d’arte, ma ambienti da abitare, esperienze sensoriali in cui l’osservatore è invitato a immergersi. Per la mostra finale, FOD prevede di presentare un’installazione che sfida la tradizionale disposizione pittorica, con opere sospese nello spazio e strutture autoportanti capaci di amplificare il senso di immersione e dialogo con l’ambiente circostante. Attraverso questo progetto, FOD continua a esplorare il confine tra pittura, scultura e architettura, dimostrando come le forme geometriche del passato possano diventare la base per nuove narrazioni spaziali. Il suo lavoro, profondamente radicato nella storia ma rivolto al futuro, invita a una riflessione sul rapporto tra memoria, spazio e materia, trasformando elementi antichi in nuove possibilità espressive.

 

FOD (Francisco Olivares Díaz) è nato a Puerto Lumbreras nel 1973. Dopo essersi laureato in Belle Arti a Granada, ha vissuto a Madrid, Parigi e Roma. Attualmente vive e lavora a Madrid. Dalle sue prime esposizioni nelle gallerie spagnole T20 e Ad Hoc e nella galleria brasiliana Ybakatu, ha sviluppato progetti presso La Conservera, la Sala Verónicas e la Tabacalera di Madrid. Dal 2021 collabora con la galleria Juan Silió. Dal 2003 la sua presenza è costante in fiere e biennali come ARCO, Manifesta 8, Artissima, Maco, SP Arte e Volta. Il suo lavoro, che rivede i principi estetici della Bauhaus, esplora la relazione tra spazio, supporto e colore, evolvendo da riferimenti essenziali nella costruzione-decostruzione-distruzione, come Gordon Matta-Clark o Imi Knoebel. L’estetica delle città e la loro proiezione architettonica sono punti di svolta nella sua ricerca. Le sue opere evidenziano un'osservazione costante dell'evoluzione della linea geometrica, che parte da Mondrian o Palazuelo e segue una direzione segnata da simmetria, proporzione e prospettiva architettonica. La materia occupa sempre più spazio, sia nella pittura che nella scultura, e attraverso la memoria esplora nuove vie in un'opera in cui architettura e ricordo diventano protagonisti.

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Foto di Davide Melfi

Fabìan Ramos

Fabián esplora il confine tra cinema, scultura e installazione, sviluppando un linguaggio visivo che egli stesso definisce "cinema con oggetti". I suoi lavori sperimentali fondono la materia con l'immagine in movimento, creando un dialogo tra realtà tangibile e dimensione onirica. Ogni oggetto che utilizza nei suoi film non è solo un elemento scenico, ma un vettore di significati e memorie, capace di evocare storie sospese tra passato e presente.

Il suo approccio prende le mosse dalle forme precinematografiche di narrazione visiva, rintracciando nel paesaggio urbano e architettonico elementi che richiamano il linguaggio cinematografico ancor prima della sua invenzione. "I chiostri, le strade fiancheggiate da alberi, le sculture antiche: sono tutte immagini con una durata temporale propria, che hanno sedimentato significati nel corso dei secoli", racconta. Roma, con la sua stratificazione storica e il suo rapporto con la luce, diventa un laboratorio visivo in cui sperimentare nuove forme di cinema e installazione.

La luce e il suono sono centrali nel suo lavoro. "Scelgo gli oggetti in base alla loro capacità di brillare, di proiettare qualcosa di speciale", spiega. Il modo in cui la luce interagisce con le superfici diventa una sorta di fotografia in tempo presente, un'esperienza immediata dell'immagine. Anche la musica assume un ruolo strutturale: attraverso lo spettrogramma sonoro, prolunga nel tempo il suono di un singolo strumento, esattamente come le sue immagini cercano di estendere un attimo in una narrazione più ampia. "Così come in una composizione musicale contemporanea tutti gli strumenti suonano insieme senza seguire una melodia tradizionale, anche le immagini nei miei film si aggregano per generare una sensazione", aggiunge.

Attualmente, Fabián sta lavorando a un progetto che culminerà a giugno con una proiezione in una chiesa romana, accompagnata da musica d’organo e voci dal vivo. "La pellicola si aprirà con il sogno di una scultura che immagina i mostri di Bomarzo, per poi svilupparsi attraverso diverse ambientazioni, tra cui Roma e Venezia, che intendo filmare di notte", racconta. Parallelamente, sta preparando una mostra presso Spazio Oro a Roma, curata da Benedetta Cassini, in cui le sue installazioni esploreranno la relazione tra luce, materia e memoria.

Un aspetto cruciale della sua pratica è l’uso di oggetti trovati, raccolti per strada e trasformati in superfici per proiezioni luminose. "Mi interessa vedere come la luce interagisce con essi, come filtra attraverso le trame e genera nuove immagini", spiega. Questo processo espande il suo lavoro oltre la pellicola, trasformando gli spazi espositivi in ambienti immersivi. "La luce è materia, e mi interessa come possa costruire significati attraverso la sua interazione con il contesto. Le mie installazioni non sono semplici proiezioni, ma composizioni di luce e oggetti che trasformano lo spazio in cui vengono presentate." In attesa della mostra e della performance finale a giugno, Fabián continua a esplorare le infinite possibilità offerte dal cinema e dall'installazione, sperimentando con immagini e suoni per dare forma a nuove esperienze percettive.

 

Fabián Ramos realizza fotografie, oggetti, sculture e film. Attraverso un processo che chiama cinema con oggetti, sperimenta connessioni tra fotografia, architettura, scultura e cinema. Ha studiato Architettura e Arti Visive presso l’Università Nazionale di Tucumán, in Argentina.

È borsista dell'Accademia di Spagna a Roma per il periodo 2024-25, del Laboratorio di Cinema dell'Università Torcuato Di Tella e del Programma per Artisti della stessa università a Buenos Aires, nonché del Laboratorio di Ricerca sulle Pratiche Artistiche Contemporanee a Buenos Aires. È stato borsista del CIA - Centro di Investigaciones Artísticas, diretto da Roberto Jacoby, e delle Borse Trama in Argentina, sponsorizzate dalla Rijksakademie di Amsterdam. Ha partecipato a residenze artistiche in Messico, Madrid e Argentina. Nel 2020 ha ricevuto il sostegno alla creazione artistica dalla Comunidad de Madrid. I suoi film sono stati proiettati in festival cinematografici come il BAFICI - Festival di Cinema Indipendente di Buenos Aires, il FICALI - Festival di Cinema di Cali e il Festival di Cinema della Guinea Equatoriale, oltre che in gallerie d'arte come Piedras, Big Sur e Le Putit in Argentina. Ha inoltre presentato le sue installazioni e proiezioni in vari progetti espositivi a Berlino, Madrid, Bruxelles, Città del Messico e Buenos Aires.

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Foto di Davide Melfi

Studio visit a cura di Raffaele Quattrone

Foto di Davide Melfi

Grooming Alessandra Fantoni

 

 Progetto promosso da Galleria Artra

 

In collaborazione con

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